Vecchie storie del mio paese e della mia città che rasentano oramai la leggenda metropolitana, dove strambi episodi di vita nei campi si intrecciano con una civiltà del vivere che ormai non esiste più, e che iniziava a quel tempo la marcia verso la modernizzazione.

 

Allora ci si spostava quasi sempre a piedi, tagliando per i campi, o -per distanze maggiori- in bicicletta.

Ed è qui che troviamo i tabiunàr Mamante  e  Delmo Fachėn, il ladro Fasān,  la Giusi che ballava al suono dei clacson, Salėn  che saltava nel mezzo di una rissa per scazzottarsi al posto di uno sconosciuto poco combattivo.

Personaggi metā veri e metā da leggenda di paese, un paese immerso nelle nebbie autunnali e nella spietata afa della campagna ferrarese, fra il puzzo del letame e il profumo del pane cotto nei forni a legna delle casone.


 

Tanti, tanti anni fa, con la guerra in corso o appena finita, con gli spernacchianti Mosquito che portavano i braccianti al lavoro negli anni '50, Gildo  e  Cunsòrzzi a fare la prima esperienza di sesso, Carlaza  che sparava alle biciclette nel buio pių pesto, la famiglia Suriān proprietaria di una paletta giustiziera.

Spettacolo di racconti semiseri e semiveri, dove il dialetto si intreccia con l'italiano con la scarsa eleganza di una pronuncia sgiaronata, come si dice Qui da noi :che in dialetto ferrarese si dice Chi 'd zzā da nu, inventandone quasi di sana pianta l'ortografia.
Ma preferisco scriverlo Kidzadanù.

Scritto così evoca idiomi africani e balcanici, sa di caldo, di vita scomoda, di legami antichi, di relazioni di convivenza che non sono state scritte da nessuno ma che tutti conoscono e si portano dentro ovunque vadano, di qualcosa che non conosciamo più e che ci è diventato estraneo, pur soffrendone l'assenza.

E forse è proprio  l'estraneità  da quelle che sono invece piccole storie di un nostro quotidiano appena trascorso, l'ingrediente che rende queste narrazioni comiche da un lato e un po' malinconiche dall'altro.